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Un punto di vista palestinese
di Rania Hammad*
Il potere di narrare, o di impedire ad altre narrazioni di formarsi ed emergere, è molto importante per la cultura e l’imperialismo, e costituisce uno dei principali collegamenti tra loro” – Edward Said Credo sia importante ascoltare le posizioni e le visioni del nativo palestinese, sono primarie, e centrali, e non sono solo etniche, razziali o nazionaliste, ma sono la posizione dei dominati, degli oppressi e dei colonizzati e soprattutto sono le posizioni e i sentimenti di chi ha vissuto sulla propria pelle l’essere palestinesi. Va oltre il luogo fisico, un punto geografico o un documento di viaggio, va oltre le lingue da noi parlate, dai paesi da noi abitati, o dai contesti sociali in cui siamo cresciuti. È lo sguardo, e il linguaggio coloniale e orientalista, che ci posiziona sotto lo stesso sistema di oppressione che vivono i palestinesi sotto occupazione e sotto apartheid. La Palestina resta la data di inizio della nostra storia, individuale e collettiva, e la Nakba del 1948, il primo genocidio del nostro popolo, è l’evento più determinante della nostra vita. Non ci sono dubbi che era genocidio, ed è genocidio, crimine contro l’umanità, come è scritto nello Statuto di Roma all’articolo 6, che definisce il genocidio come l’“intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, religioso uccidendo membri del gruppo, mettendo a rischio l’integrità fisica e mentale di membri del gruppo o sottomettendo il gruppo a condizioni di esistenza che portano alla sua distruzione fisica totale o parziale”. La nostra è la posizione del soggetto che accorpa la Palestina dentro di sé, non ci siamo interessati ad essa, alla causa, o alla sua storia tragica, per scelta, ma perché è eredità famigliare, culturale, e politica. Siamo figli e figlie della diaspora, figli e figlie di rifugiati a cui è stato negato il diritto di tornare alla propria terra d’origine, “negato il diritto al ritorno” e dove oggi si sta consumando un nuovo genocidio che creerà nuovi rifugiati come noi. E siamo noi a rivivere questo nostro trauma. Il trauma intergenerazionale che stiamo rivivendo, il genocidio che sta sotto gli occhi di tutti, è un trauma che si riaccende e si risveglia dai nostri incubi più profondi e che ci ricorda tutte le angoscianti tappe della nostra storia. Quando vediamo quei corpi e visi sanguinanti tirati fuori da sotto le macerie o tra le braccia di chi corre disperato, vediamo noi stessi. Quando vediamo quel dolore straziante e sentiamo quelle urla inquietanti vediamo e sentiamo i nostri nonni, genitori, zii e cugini urlare. Riesco persino a sentire l’odore del fosforo bianco, e l’odore del sangue, che mi è rimasto nel naso e nella mente dopo averlo percepito nell’aria all’indomani dei massacri di Sabra e Chatila, mentre giravo per i campi profughi con i miei cugini a Beirut nel 1982. A ogni atto di furia violenta di questo nostro genocidio, rivivo i massacri passati. Riconosciamo il nostro dialetto, i nostri detti, i nostri gesti, le nostre abitudini, e quando ci raccontiamo, ci riconosciamo. Abbiamo la stessa identica storia, la stessa cultura, gli stessi timori e le stesse speranze. Mentre la vita va avanti per tutti, la nostra sì è fermata. È la nostra stessa sopravvivenza in questione. Questa è la nostra minaccia esistenziale, e di nessun altro. Gli altri hanno capovolto la storia, cancellato colonialismo, occupazione e apartheid e hanno usato una narrazione falsa e menzognera facendo passare i colonialisti per vittime sotto minaccia esistenziale, minacciati dal nativo palestinese che loro vogliono sterminare e sradicare dalla terra. Non diteci che noi non siamo li. Perché noi siamo li, e loro sono una parte di noi, come noi siamo una parte di loro. Anche chi di noi non ci ha mai vissuto in Palestina, o non l’ha mai vista, o non l’ha mai voluta vedere, perché vederla così fa male, è sempre una persona che ha subito il razzismo antipalestinese tutta la vita. E non esiste passaporto, colore di pelle, occhi o fede cristiana o musulmana che sia, che ci distingue dal nostro vissuto come palestinesi dentro e fuori dalla Palestina. Ovunque ci siamo trovati, ci siamo sentiti marchiati. Abbiamo dovuto lottare per preservare la nostra identità. Basta il nostro nome o cognome o luogo di origine, o solo definirci ciò che siamo, palestinesi, per aprire tutte le nostre ferite. Non è mai stato possibile rispondere alle domande o alle accuse senza raccontare più di cent’anni di storia, di miti, e di morti. Di ingiustizia e sofferenza. Detto questo potete sicuramente comprendere che quando si parla a nome nostro, o al nostro posto, si prende il nostro posto, e ci sostituite, ci viene tolta la voce, la parola, e finite per narrare e formulare soluzioni al nostro posto, non sapendo che non sempre viene espresso ciò che proviamo o pensiamo, perché non siete noi. Anche quando tentate di rappresentarci. Noi a differenza degli altri, non abbiamo dimenticato che la storia non è iniziata il 7 ottobre, noi da quella data in poi, non abbiamo mai dimenticato il contesto storico e i fatti. Non abbiamo dimenticato chi fossero gli aggressori e i perpetratori di oltre 75 anni di oppressione sistematica e violenza inaudita. Quel giorno, non abbiamo perso la lucidità o la bussola intellettuale e morale, dimenticando il nesso tra causa ed effetto, la colonizzazione, l’occupazione e l’assedio. Gli altri si sono sentiti spiazzati, messi in difficoltà, hanno confuso il loro passato con il nostro presente, dimenticato che siamo le vittime delle vittime, e hanno dimenticato quello che i palestinesi non potevano dimenticare nemmeno per un istante, e cioè l’intento. L’intento di genocidio, che è alla base del sionismo. Non abbiamo dimenticato quello che abbiamo sempre saputo, che Israele è un progetto coloniale che si è costruito sulle rovine delle nostre città e sopra i cadaveri dei nostri antenati, e che la nostra stessa esistenza, quella del nostro popolo, rappresenta una minaccia diretta per Israele, che mirava e mira a cancellarci dalla storia, perché la nostra presenza sulla terra, mette continuamente in discussione la loro identità e presenza sulla terra. L’egemonia culturale della narrazione israeliana, si trova sempre a dover fare i conti con la verità storica della Nakba e con la nostra identità nazionale. È il peccato originale. Il loro intento, quello genocidario, della pulizia etnica incrementale, il “falciare il prato” come dicono gli israeliani, uccidere il più alto numero possibile di palestinesi per poter controllare la demografia, apertamente dichiarato da tutti i governi israeliani dal primo Primo ministro David Ben Gurion fino a Benjamin Netanyahu, dai Laburisti al Likud, è un fatto che noi non abbiamo dimenticato, ma gli altri si. In un giorno, è stato spazzato via tutto, perché la vita degli uni vale di più di quella degli altri, solo questo spiega l’amnesia o l’ipocrisia. La violenza coloniale di oltre 75 anni è stata messa sullo stesso piano della violenza di un giorno, in una falsa simmetria che ha cancellato tutta la violenza perpetrata contro di noi e ben documentata. In un giorno si è cancellato ogni nostro diritto violato, e nel dimenticatoio sono finiti tutti i rapporti scritti e le risoluzioni sancite, trascinati tutti dalla macchina propagandistica (ben nota strategia di Israele) che nessuno ha saputo o voluto scrutare o fermare, pur conoscendone bene le tattiche e scopi, facendo partire e alimentando questa mostruosa macchina, andata fuori controllo, e permettendo ciò che noi sapevamo stesse per arrivare. Il genocidio. L’hanno definito il loro 11 settembre, un atto di terrorismo, un genocidio, un Olocausto, un crimine di guerra, un atto di antisemitismo, e hanno ribaltato tutto e incolpato i palestinesi. Nel giro di poco eravamo i talebani e i russi con le stigmatizzazioni di entrambi. Le conseguenze sono state la demonizzazione, la censura, il silenziamento e la sparizione, con il via libera al piano espansionistico di Israele. Non bisognava giustificarli e dire che sono vittime intrappolate in un sistema coloniale, inconsapevoli cittadini di una società ammalata di occupazione e di apartheid, perché alla fine, resta il fatto, che è una società che chiede lo sterminio del popolo palestinese. E i palestinesi siamo noi. Bisognava dire che l’azione di quel giorno era prevedibile. Questo doveva essere detto subito dopo il 7 ottobre. Subito, senza se e senza ma. Senza ritardi e con onestà. A noi donne palestinesi è stato chiesto di solidarizzare con le donne israeliane, dimenticando che la donna israeliana è parte integrante del sistema coloniale che ci opprime. L’essere donne non toglie il fatto che sono le nostre torturatrici e persecutrici. Il nostro rapporto è uno di occupata e occupante. La donna israeliana è colei che ci disumanizza e brutalizza, ci ruba la nostra umanità e femminilità, attraverso il sistema militare brutale e violento del suo Stato. Le donne israeliane come gli uomini hanno l’interesse di mantenere lo stato suprematista che chiama noi animali umani usando una retorica razzista e incitando al nostro genocidio, e sono direttamente coinvolte e colpevoli dei crimini perpetrati contro di noi. E sappiamo che la pretesa di vederci alleate come donne con le nostre carceriere, è un ulteriore strumento di oppressione e razzismo che si strumentalizza contro di noi, ed è un tentativo di ripulitura di immagine delle cittadine di uno stato che è criminale, usando il femminismo come arma contro di noi. Dove erano le femministe israeliane e la loro indignazione per tutti i crimini perpetrati contro le donne palestinesi, nei decenni, abusate nelle carceri, sparate ai posti di blocco, uccise mentre prestavano soccorso ai feriti, o mentre facevano il loro lavoro di giornaliste, trucidate durante le aggressioni a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est? Allo stesso tempo ci domandiamo perché quella piccola minoranza di pacifisti non è mai divenuta maggioranza? Un vero movimento femminista e blocco per la pace basato su principi di eguaglianza avrebbe generato un movimento Palestinian Lives Matter. Invece esiste un governo di ultradestra religioso xenofobo e razzista, arrivato al governo perché appoggiato dalla società, di donne e uomini. Che hanno permesso un genocidio tra i più barbarici della storia moderna, con scenari apocalittici e brutalità grottesca. Adesso bisogna ascoltare le voci e le richieste dei palestinesi, che sono appoggiati dalle società civili di tutto il mondo, e che hanno il diritto internazionale dalla loro parte, mentre Israele si è smascherata del tutto, ed è sotto accusa per genocidio alla Corte di Giustizia Interazionale. Ora ci dev’essere coerenza, stringere alleanze con antirazzisti e antisionisti, escludere e isolare chi non lo è, e dare voce ai palestinesi per non ripetere gli errori del passato. Perché avevamo detto MAI PIU’.
  • attivista e scrittrice. Intervento alla Casa Internazionale delle donne di Roma, 19 marzo 2024. Presentazione del libro J’accuse di Francesca Albanese