Piero Sunzini
Ci diamo appuntamento alla pausa caffè per concludere la nostra chiacchierata sui temi legati alla salute animale. L’intervento di Amhadou Dicko all’apertura della conferenza “sui cantieri dello sviluppo sostenibile”[1] non è rituale. D’altronde, il ministro delegato dell’allevamento in Burkina Faso è un veterinario che conosce bene le dinamiche del mondo rurale. Cresciuto in un Paese dove l’agroecologia, fin dagli anni ’80 del Presidente Thomas Sankara, è stata oggetto di attenzione particolare nelle riflessioni sullo sviluppo del settore primario. Il ministro sottolinea, infatti, come il bisogno d’accrescere quantitativamente la produzione agricola deve essere coniugato col sostegno all’approccio agro-ecologico. Un sistema in sintonia con la lotta per la sicurezza alimentare, soprattutto nei contesti d’agricoltura familiare, ed efficace come risposta agli effetti del cambiamento climatico che incrementano i processi di desertificazione.
Non riesco nemmeno a fargli i complimenti per l’intervento. Lascia la sala prima della pausa caffè per un impegno non previsto. In serata, guardando il telegiornale, capisco la causa della sua partenza improvvisa: la caduta del governo burkinabè.
La crisi si risolve in 48 ore. Prima con la nomina del nuovo primo ministro, Jean Emmanuel Ouedraogo, già Ministro delle Comunicazioni, poi con la nomina del nuovo governo. Molti ministri vengono riconfermati.
La novità è l’uscita di scena di Apollinaire Kyelem di Tambelà, nominato primo ministro dopo il colpo di Stato del settembre 2022. Scelto per le sue posizioni filo-sankariste ha lavorato in armonia con il Presidente del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré, anche sui dossier più delicati: lotta al terrorismo jihadista, sviluppo economico e politica estera. Dai rumors degli ambienti politici di Ouagadougou, comunque, sembra proprio che sia la politica estera la causa di qualche incomprensione che avrebbe generato il suo “dimissionamento”. In effetti, gli ultimi anni sono stati ricchi di accadimenti: la realizzazione dell’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), la crisi con la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao), l’apertura della nuova ambasciata russa a Ouagadougou e soprattutto il perdurare delle difficoltà nei rapporti diplomatici con la Francia.
I militari francesi non ci sono più
La posizione della Francia nei paesi delle sue ex-colonie non cessa d’indebolirsi. Non solo, però, nei tre dell’Aes – Burkina Faso, Mali e Niger –, con Presidenti militari che hanno, da subito, condiviso il rifiuto della politica francese in Africa. L’elemento di novità è il coinvolgimento anche di paesi storicamente “più amici” come il Senegal, il Ciad e la Costa d’Avorio. Per cercare di capire le dinamiche in atto, un punto di vista significativo è la verifica dello stato della presenza militare francese sul campo. Nel picco più alto delle operazioni militari delle missioni Barkhane in Mali (dal 2013) e Sangaris in Centrafrica (2016) la Francia aveva circa ottomila soldati in Africa[2], con basi militari importanti in Senegal, Costa d’Avorio, Gabon e soprattutto in Ciad. Dopo le crisi politiche con i tre paesi dell’AES - che hanno generato rapporti diplomatici ai minimi termini e l’uscita dei militari francesi dal Mali, Burkina Faso e Niger- le autorità francesi hanno avuto la necessità di ridefinire la strategia della presenza militare in Africa.
Da questo punto di vista, il 2024 è stato un anno cruciale. Gli accadimenti di politica interna - la scelta delle elezioni anticipate dopo la sconfitta di Macron alle “europee”, i giochi olimpici di Parigi, il governo debole di Michel Barnier - sono andati in parallelo alla riflessione sulle dinamiche africane. In questo quadro, si colloca l’incarico conferito a Jean-Marie Bockel per riconfigurare il sistema militare francese nel continente. Politico di lungo corso, ministro più volte e inviato personale del presidente Macron in Africa, Bockel ha dichiarato l’obiettivo[3] della sua missione, fin dai primi colloqui coi leader del continente: riduzione degli effettivi sul campo - garantendo comunque la presenza militare francese – e negoziati coi differenti governi africani. ”Meno presenza e più cooperazione” è il leitmotiv, in estrema sintesi, del rapporto riservato presentato al Presidente Macron, a fine novembre 2024. L’agenzia France-Presse, citando fonti vicine all’esecutivo, ha reso pubblico il contenuto della proposta, basata su una riduzione generalizzata dei militari sul campo: un centinaio di soldati in Gabon (rispetto ai 350 attuali), altrettanti in Senegal (rispetto ai 350) e in Costa d’Avorio (in precedenza 600) e circa 300 in Ciad (rispetto a 1.000)[4].
… nemmeno in Ciad, Senegal e Costa d’Avorio
Ancora una volta[5], però, molto spesso negli ultimi anni, la diplomazia francese “ha fatto i conti senza l’oste”. Ancora un deficit d’analisi e comprensione del contesto di riferimento, soprattutto dei Paesi saheliani. Il governo del Ciad annuncia, infatti, di voler mettere fine all’accordo di cooperazione militare con la Francia. È sorprendente anche la tempistica: immediatamente dopo la partenza dalla capitale N’Djamena di Jean-Noel Barrot, ministro francese degli affari esteri. “La decisione è stata pubblicata sul sito ciadiano degli Affari Esteri solamente una volta che era nell’aereo. Nemmeno il Presidente Macron è stato chiamato dal [suo omologo] Mahamat Idriss Déby”[6]. Il 26 dicembre 2024, quindi, i militari francesi abbandonano la base militare di Faya-Largeau, nel nord del Paese, riconse–gnandola alle autorità militari locali. Primo atto del ritiro delle truppe dal Ciad che, da programma, dovrà completarsi entro le prime settimane del 2025.
Al contrario, in Senegal, qualsiasi osservatore attento non può dirsi sorpreso che il Presidente Diomaye Faye definisca “obsoleta e vincolante” la natura degli accordi di difesa del Senegal con la Francia. L’aveva ribadito in ogni dove, insieme all’attuale primo ministro Ousmane Sonko, durante le campagne elettorali vinte nel 2024 (le presidenziali a marzo e le legislative a novembre). Era nelle cose, dunque, il contenuto del discorso presidenziale di fine anno col quale ha, di fatto, formalizzato un annuncio atteso: “…la fine di tutte le presenze di basi militari di paesi stranieri in Senegal, entro il 2025”.
Allo stesso modo, in Costa d’Avorio, il Presidente Alassane Ouattara ha approfittato del suo discorso alla nazione per dichiarare completato il processo di modernizzazione delle forze armate e di avere deciso, quindi, “il ritiro concordato e organizzato delle forze francesi dalla Costa d’Avorio.”[7]
Siamo di fronte ad uno scenario straordinario, può essere definito storico: il ritiro delle truppe da tre paesi che sono stati, da sempre, la spina dorsale della presenza francese in Africa occidentale.
Il Senegal con un rapporto bilaterale importante, coltivato dai tempi del Presidente Senghor; una relazione privilegiata, forse anche perché Dakar è stata la capitale dell’Africa Occidentale Francese (Aof). La Costa d’Avorio poi, ancora oggi, è il Paese guida dell’Africa francofona dove l’armée française ha avuto un ruolo determinante negli ultimi decenni, intervenendo a più riprese, anche direttamente sul campo, e indirizzando le sorti della “guerra civile”. Il Ciad, infine, asse portante della presenza militare francese sull’intero continente, con l’esercito più efficiente della regione. Ha spesso giocato il ruolo di gendarme, come baluardo contro l’espansionismo della Libia di Gheddafi verso l’Africa sub-sahariana, prima, e a guardia degli interessi francesi nell’area, poi. Considerato da Macron l’ultimo bastione in Africa occidentale, dopo avere dovuto traslocare le truppe francesi dal Mali al Burkina, dal Burkina al Niger e infine dal Niger al Ciad, perché cacciate dai governi locali.
È finita la presenza militare francese anche in Ciad, dunque, anche se forse ha ragione chi dice che il Presidente Deby sia stato obbligato a questa scelta da una situazione interna che ormai mal la sopportava. È vero pure, però, che la leadership ciadiana sta guardando, con malcelato interesse, lo sviluppo delle dinamiche politiche dell’Aes. Per questo motivo, forse, Emmanuel Macron[8], pur senza mai nominarlo, si rivolge preferenzialmente proprio al Ciad, durante il discorso alla conferenza degli ambasciatori del 6 gennaio 2025, a Parigi. Rivendicando l’intervento francese contro il terrorismo jihadista, ammonisce i leader africani di non avere difeso il partenariato con la Francia di fronte alle loro opinioni pubbliche: “penso che si siano dimenticati di dire grazie…nessuno di loro vivrebbe in un paese sovrano se l’esercito francese non si fosse schierato in questa regione.” Evidenziando che il “nuovo corso” francese stava programmando una riduzione, e non un ritiro, della presenza militare dal suolo africano, ma che le scelte dei differenti governi l’hanno costretto a fare altrimenti.
L’Aes si consolida
L’insistenza nel proporre ancora questo profilo “paternalista e arrogante” non paga più. Le reazioni a Macron di rappresentanti istituzionali, soprattutto di Ciad, Senegal e Burkina Faso, sono state dure e inflessibili. Non paga più riproporre questo modello strategico che non ha funzionato nemmeno con il “G5-Sahel”. Una iniziativa intergovernativa proposta per contrastare il terrorismo jihadista nei paesi saheliani che, fortemente caldeggiata da Macron, assegnava le responsabilità militari e il coordina–mento delle politiche di sicurezza direttamente agli stati membri - Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad -, senza un impegno militare diretto francese. Al tempo stesso però, Macron riaffermava l’essenzialità della missione Barkhane nel Sahel: una richiesta d’assunzione di responsabilità, da una parte, e la sua negazione, dall’altra. Una contraddizione che ha portato al fallimento del “G5-Sahel” e delle scelte di politica estera francese in Africa, travolte dai mutamenti nell’opinione pubblica e da cambi di governo.
Analogamente, anche il “piano Bockel” è morto nella culla. Un fallimento programmatico che ha sottovalutato un quadro regionale in movimento e alla ricerca di nuove forme di cooperazione, anche su basi regionali. È il caso dell’Aes. Mali, Burkina Faso e Niger ratificano l’adozione del trattato istitutivo della Confederazione nel luglio 2024, in occasione del primo vertice dei tre capi di Stato militari avviando programmi comuni nei settori della difesa e lotta al terrorismo jihadista, delle telecomunicazioni – col lancio di una Web Tv – e d’intesa tariffaria per il roaming telefonico.
L’Aes si caratterizza da subito anche in politica estera con la scelta unitaria dei tre Paesi di abbando–nare la Cedeao, dopo 49 anni, con motivazioni politiche inequivocabili: “… la Cedeao, sotto l’influenza di potenze straniere, tradendo i principi fondatori, è diventata una minaccia per i suoi Stati membri e per le sue popolazioni…”. Rimproverando all’organizzazione di essersi allontanata dalle ambizioni dei padri fondatori che prefiguravano “…l’integrazione tra gli Stati della regione…per gli ideali di fraternità, solidarietà, aiuto reciproco, pace e sviluppo”[9].
Una scelta di campo netta, quindi, che viene confermata anche al vertice dei capi di stato e di governo della Cedeao di Abuja, 15 dicembre 2024, dove i Paesi-Aes rifiutano[10] la proposta avanzata dai rappresentanti di Togo e Senegal per una moratoria di sei mesi. Confermano l’uscita ma, con un atto politico unilaterale, si rivolgono direttamente a tutti i cittadini provenienti dai paesi della Cedeao, garantendo loro libertà di movimento, esentandoli dal visto e con la libertà di entrare e spostarsi nella Confederazione-Aes. È sottesa una richiesta di reciprocità alla Cedeao, in vista del ritiro ufficiale previsto per il 29 gennaio 2025? Oppure si tratta di un suggerimento per un “divorzio consensuale”?
In quest’inizio 2025 le domande e le riflessioni su questo dossier si moltiplicano. Agli esperti di cose saheliane, infatti, non è passato inosservato l’interesse dei Presidenti togolese Faure e senegalese Faye a trovare un punto di mediazione con i paesi-Aes, prima e dopo il vertice d’Abuja. Un indicatore ulteriore della legittimazione dell’Aes nella Regione che confina alla marginalità la definizione sarcastica di “boutade istituzionale” con la quale alcuni commentatori occidentali continuano a descriverla. L’attenzione allo sviluppo dell’Aes, invece, si allarga: alla Guinea, dove la fase di transizione del governo militare di Mamadi Doumbouya si è allungata rispetto ai tempi prestabiliti (31 dicembre 2024) e, nei fatti, anche al Ciad, dopo l’avvio del “nuovo orientamento” delle relazioni con
la Francia.
Uno scenario in movimento che potrebbe scuotere alle fondamenta la Cedeao, già in crisi d’identità, e favorire l’uscita definitiva dall’isolamento politico regionale del Mali, Burkina Faso e Mali, dopo i colpi di stato degli anni passati. Una nuova organizzazione regionale, infatti, potrebbe rimetterli totalmente in gioco; cancellando i vincoli del mancato rispetto dei protocolli sulla democrazia e buon governo previsti dall’attuale Cedeao, sulla base dei quali sono state applicate le sanzioni ai “Paesi golpisti”. Solo sanzioni: con un impatto socio-economico pesante sulle popolazioni, soprattutto le più povere, senza proporre e attuare, invece, nessuna iniziativa concreta di lotta contro il terrorismo jihadista. In questo modo, venendo meno a quello spirito d’aiuto reciproco che è alla base dei principi fondanti dell’organizzazione.
L’Aes sta dimostrando di avere capacità politiche e organizzative, con i suoi 70 milioni d’abitanti, con più di 2,7 milioni di kmq (più di nove volte l’Italia) e con potenzialità economiche da sfruttare. È attenzionata da molti Paesi membri della Cedeao anche per essere riuscita a sviluppare nuovi partenariati internazionali. In questi anni difficili, infatti, i tre Paesi-Aes hanno ricevuto gli aiuti che hanno domandato da nuovi partner internazionali che non hanno posto come pregiudiziale l’esibizione del “certificato in originale di paese democratico”.
…e consolida nuovi partenariati
Nei Paesi dell’Aes l’emergenza prioritaria rimane il terrorismo. L’inefficienza nel contrastarlo è ritenuta una delle cause principali dei colpi di stato degli ultimi anni. La mancanza di preparazione delle forze armate e di forniture militari adeguate sono le ragioni del protrarsi di questo flagello che sta causando migliaia di morti, anche tra i civili, milioni di sfollati e la perdita del controllo di parte dei territori nazionali. Tutto ciò in contesti fragili, strutturalmente poveri e insicuri da un punto di vista alimentare. Un conflitto che sarà destinato a durare negli anni e che le recenti dinamiche di politica internazionale potranno complicare ulteriormente.
Gli aiuti militari ricevuti, comunque, influiscono sugli eventi; la fornitura di droni turchi, per esempio, sta cambiando lo scenario dello scontro. “Sono economici, affidabili e negli ultimi mesi hanno già dimostrato la loro efficacia con uccisioni eccellenti. Questo progresso comporta inevitabilmente cambiamenti sul campo: l’uso sempre più consistente di droni, infatti, sta portando i gruppi islamisti a stabilizzarsi sempre più a lungo nelle boscose zone di confine con i paesi costieri (Togo, Benin, Niger e Ghana in particolare, ma anche Costa d’Avorio), che sono sempre più preoccupati da questo carattere sempre più transaheliano del conflitto più grande del mondo”[11]. Vantaggi militari nei Paesi-Aes con l’acquisto dei droni turchi, ma anche un’estensione geografica[12] del conflitto, quindi.
Ancora un rilevatore della inadeguatezza della Cedeao nella valutazione del fenomeno terrorista; trascurando gli sforzi dei Paesi-Aes in prima linea, li ha addirittura costretti a subire le sanzioni – definite ingiuste ed eterodirette, da quest’ultimi -, senza invece percepire il rischio di una estensione a livello regionale. In questo quadro, diventa comprensibile il sostegno che la maggior parte delle popolazioni locali hanno garantito ai colpi di stato in Mali, Burkina Faso e Niger, considerandoli come l’ultima opportunità di difesa dell’integrità territoriale e degli stati nazionali. L’apertura a nuovi partenariati internazionali, quindi, è stata una conseguenza logica di questo scenario. In primis la Turchia che, abbandonando l’approccio “soft power” con i paesi saheliani, si propone come un partner commerciale anche di forniture militari, accodandosi alla Russia che rimane, comunque, il partner più importante, in questo settore.
In una situazione di conflitto la Russia è il partner principale
Sembra che anche nelle relazioni internazionali esista l’horror vacui. I paesi dell’Aes stanno colmando velocemente il “vuoto francese”, attirando un’attenzione particolare da parte della Federazione russa che, nell’ultimo decennio, ha ripreso con decisione le relazioni con l’Africa, che si erano interrotte repentinamente col crollo dell’Unione sovietica. Le ragioni potrebbero essere rintracciate nella crisi ucraina, in particolare nell’annessione della Crimea e le conseguenti sanzioni internazionali. Il continente africano, secondo le interpretazioni di Mosca, avrebbe potuto attenuarne gli effetti: appoggio militare in cambio di vantaggi economici. Il gruppo paramilitare privato Wagner il passe-partout; prima nella Repubblica Centrafricana, poi nei paesi saheliani. Questo schema si sta consolidando, con la “gestione diretta” – Africa Corps - delle operazioni da parte del Cremlino: la Russia è il primo venditore di armi nell’intero continente. Gestisce circa il 40% del mercato, secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma.
Il vertice Russia-Africa a Sochi nel 2017, ma soprattutto quello di San Pietroburgo nel luglio 2023, sono stati centrali nella definizione delle linee di sviluppo di questo partenariato. I paesi dell’Aes sono diventati la punta di diamante di queste relazioni che ormai vanno oltre il solo aspetto legato alla sicurezza.
La Russia ha riaperto l’ambasciata a Ouagadougou. Lo scorso novembre 2024, il vice-primo ministro, Alexandre Novak, accompagnato da una folta delegazione russa, ha visitato i tre paesi con l’obiettivo di rafforzare le relazioni con Mosca. In Burkina Faso, oltre a consolidare la cooperazione militare ha sottoscritto accordi in vari settori: minerario, agricolo, digitale e anche quello della formazione professionale. In un colloquio con la stampa locale[13], Novak si è soffermato sull’aiuto al settore agricolo burkinabè: fornitura di fertilizzanti e sfruttamento delle acque profonde per soddisfare il fabbisogno d’irrigazione che fanno seguito a quelle di cereali, arma strategica di Mosca nello sviluppo dei partenariati africani[14]. Dando una prima risposta, in questo modo, alle richieste di una maggiore cooperazione commerciale ma anche politica. Il ministro degli esteri, JM Traoré, infatti, riferisce che nell’incontro bilaterale Russia-Burkina Faso, “…abbiamo convenuto, e abbiamo accettato, che dobbiamo lavorare di più per garantire che le decisioni globali non siano più limitate a un gruppo di cinque paesi, ma che ci sia più apertura per consentire agli africani di dire la loro”[15]. Con evidente riferimento all’obsoleto meccanismo di funzionamento del sistema decisionale delle Nazioni Unite.
Anche il Niger è su questa linea. Il ministro degli esteri, Sangaré Bakary, lascia intendere che le azioni principali dei partenariati vanno consacrate alle vere emergenze, sottolineando la cooperazione della Russia che apprezza come “…i nostri paesi, Burkina, Mali, Niger, si sono impegnati a unire i propri sforzi per affrontare l’insicurezza che affligge il Sahel”[16]. Testimoniando poi come il Niger, dopo il colpo di stato del luglio 2023, sia stato aiutato da Mosca a contrastare gli effetti nefasti dell’embargo voluto dalla Cedeao e dai paesi occidentali; evidenziando pure come questa collaborazione sia svincolata dal rispetto delle regole della liberal-democrazia e dal rispetto formale dei diritti umani.
Uno scenario comunque in evoluzione
Stanno cambiando, dunque, i punti cardinali di un mondo in veloce e continua trasformazione. Per questa ragione sarebbe un azzardo leggere la presenza militare russa nell’area saheliana come una costante, anche per i prossimi anni. S’intravedono già, infatti, segnali che vanno in direzione contraria: la caduta di Bachar el-Assad in Siria, per esempio, causata anche dal mancato intervento delle truppe russe. Quelle stesse che, al contrario, erano state determinanti nel 2015, per consolidare il regime contro lo Stato islamico e puntellarlo per quasi 10 anni. Il sostegno militare diretto in Siria, quindi, rivelatosi un disegno perdente nel lungo periodo, potrà essere un insegnamento per l’attuale strategia russa nel Sahel? Invece di continuare coi boots on the ground, potrebbe mutare in una meno impegnativa politica di rafforzamento delle capacità militari dei Paesi dell’Aes?
Così facendo, in effetti, potrebbe perseguire molteplici obiettivi: 1) ridurre i rischi di una presenza in prima linea con perdite di vite umane[17]; 2) limitare le critiche di crimini di guerra, o comunque di efferatezze - per i metodi spesso brutali delle operazioni militari - da parte della comunità internazionale, soprattutto occidentale; 3) allargare l’area d’influenza ad altri paesi dell’Africa subsahariana; 4) evitare il rischio che la presenza russa, concentrata prevalentemente sugli aspetti militari, possa essere percepita, nel medio-lungo periodo, come un approccio neocoloniale.
La ridotta presenza commerciale russa, infatti, non è apprezzata, neanche dalla popolazione saheliana. Nonostante l’impegno formale di Putin[18] di raddoppiare gli scambi commerciali col continente africano, i numeri parlano chiaramente: il commercio Russia-Africa non ha raggiunto nemmeno la metà dei promessi 40 miliardi di dollari e, soprattutto, è mal distribuito. A vantaggio, quasi esclusivo, di Algeria, Egitto, Marocco e Sudafrica, a discapito, quindi, dei paesi della fascia sub-sahariana. Nell’intera Africa (nel 2022), il traffico commerciale russo ristagnava al 5% del commercio europeo e al 6% di quello cinese[19]. La Russia, dunque, è un partner economico del continente quasi irrilevante, destinato a rimanere tale per un periodo lungo a causa della crisi economica e delle sanzioni per la guerra in Ucraina. Questa realtà potrebbe avere un impatto nelle relazioni future di partenariato nel Sahel.
Tornando, infatti, al recente cambio di governo in Burkina Faso, e all’analisi delle motivazioni, va evidenziato che Apollinaire Kyelem di Tambelà, il primo ministro “dimissionato”, è un avvocato che ha studiato a Mosca. Uno dei 45.000 africani subsahariani che hanno frequentato le università sovietiche dal 1960 al 1991. Ha sempre mantenuto rapporti amichevoli con la Russia, anche durante il suo mandato governativo, assecondando in questo anche la strategia del Presidente Traoré alla ricerca di una interlocuzione importante con la Russia: importante ma non privilegiata. I ben informati di cose burkinabé, però, sottolineano con forza quest’ultima sfumatura semantica. Potrebbe essere l’indicatore di posizioni politiche sostanzialmente differenti. Da un lato, avremmo l’ex primo ministro alla ricerca di un processo di sostituzione della Francia con la Russia, come perno delle relazioni internazionali del Paese. Un canale preferenziale con Mosca, quindi, allineandosi in qualche modo alle dinamiche politiche del vicino Mali. Dall’altro lato, ci sarebbe il Presidente che, al contrario, pur avendo manifestato pubblicamente l’interesse e la volontà di consolidamento del partenariato con la Russia, mostra la volontà di rifiutare il passaggio dalla “tutela” francese-occidentale a quella russa e chiede che il concetto di “equa cooperazione” debba essere coniugato con partenariati differenziati, con un approccio win-win; in totale sintonia col ministro degli esteri Jean Marie Traoré[20] che forse, proprio per questo suo posizionamento, è stato confermato agli “esteri” anche nel nuovo governo Ouedraogo.
Il “vantaggio reciproco” come fondamenta dei partenariati internazionali è il punto di vista espresso anche dal Ministro dell’allevamento Amhadou Dicko: bisogno di tecnologia e know-how, da una parte; opportunità economiche da sfruttare in Burkina Faso e nell’Aes, dall’altra. Nello specifico, ha fatto riferimento[21] a bisogni di formazione, soprattutto di alta formazione per tecnici veterinari, ma anche di attrezzature e vaccini per gli animali: la produzione potrebbe essere fatta in Burkina Faso da imprese straniere che ricaverebbero profitti dalla commercializzazione sul posto e garantirebbero una opportunità di sviluppo della zootecnia per fare fronte alla carenza di alimenti con alto valore nutritivo.
Un approccio di vera cooperazione, non ideologico ma, al contrario, con un alto tasso di pragmaticità nelle scelte di partenariato. Trattasi del modello che stanno seguendo i paesi-Aes che non escludono a priori nessun interlocutore internazionale, neanche i vecchi partner, a condizione che la cooperazio–ne sia fatta con beneficio reciproco.
Anche con l’Italia, ovviamente; soprattutto con l’Italia, potremmo dire. Il nostro Paese è visto, infatti, come un interlocutore auspicato, possibile e gradito. Per la sua storia di cooperazione nel Sahel, per le sue capacità imprenditoriali e professionali, per il suo grado di sviluppo, per la possibilità di creare joint-venture, per la sua struttura produttiva basata sulle piccole-medie imprese; per un modello di welfare adeguato alla crescita socio-economica di paesi che perseguono l’obiettivo d’uscire dalla povertà e, last but non least - difficile da fare ammettere pubblicamente - per un profilo socio-econo–mico-culturale che non si discosta molto da quello francese.
Il governo Meloni ha promosso la conferenza Italia-Africa nel gennaio 2024 e ha lanciato il Piano Mattei che è stato gradito e, al tempo stesso, criticato nel suo approccio metodologico. Il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki, infatti, ha apprezzato la descrizione di un profilo d’intervento “non predatorio” per un partenariato alla pari. Ha però dichiarato pubblicamente che avrebbe auspicato essere consultato preliminarmente per una programmazione condivisa del Piano. Un riferimento, nemmeno troppo velato, al rischio che gli obiettivi e i Paesi prioritari già identificati rispondano più a logiche di ricerca di materie prime e di riduzione dei flussi migratori che a programmi per creare ricchezza e posti di lavoro nel continente.
In effetti, le prime notizie sull’attuazione del Piano non fugano del tutto questi dubbi. Da una parte, infatti, “… BF (ex Bonifiche Ferraresi), Leonardo, Eni e Coldiretti hanno fatto il pieno e, del Piano Mattei, hanno preso tutto. Occupano il settore agroindustriale, quello energetico e l’innovazione tecnologica. Le quattro realtà hanno seguito l’iter del Piano Mattei con la Meloni durante i suoi viaggi in Africa. Hanno messo a punto con il governo i primi progetti che ne fanno un nuovo modello di cooperazione internazionale.”[22].
Dall’altra, tra i paesi prioritari non sono stati inseriti i Paesi del Sahel dove pure sono state aperte nuove ambasciate italiane, negli ultimi anni. A gennaio 2025, la Presidente del Consiglio ha annunciato[23] che anche il Senegal e la Mauritania, tra i paesi saheliani, beneficeranno degli interventi del Piano Mattei. Ancora esclusi, invece, quelli dell’Aes e il Ciad che continuano ad essere, loro malgrado, tra i Paesi più poveri del mondo con l’emergenza del terrorismo jihadista ancora fortemente presente.
[1] Prima edizione dei “Cantieri dello sviluppo sostenibile”, sui temi dell’agroecologia, si è tenuta a Loumbila e Ouagadougou, in Burkina Faso il 3 e 4 dicembre 2024. Organizzata dalla Scuola Nazionale d’Allevamento e Salute Animale (Enesa) del Burkina Faso in collaborazione con Tamat Ets, ong di Perugia che lavora da 30 anni nei paesi saheliani.
[2] Emmanuel Dupuy “C’è bisogno di un ‘Piano Mattei’ francese per ridefinire il rapporto tra la Francia e il continente africano?” in Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa a cura di Mario Giro. Edizioni Guerrini e Associati.
[3] «Présence française en Afrique: les conclusions de Jean-Marie Bockel bientôt sur le bureau d’Emmanuel Macron». Jeune Afrique, 21 novembre 2024.
[4] Le rapport sur la configuration du dispositif militaire français en Afrique présenté à Emmanuel Macron». Le Monde Afrique, 26 novembre 2024.
[5] Vedi Piero Sunzini “Good morning nel Sahel” in Alternative per il socialismo n.70. Ottobre-dicembre 2023.
[6] La France prise de court après l’annonce par le Tchad de la fin des accords en matière de défense». RFI, 29 novembre 2024.
[7] “I militari francesi cacciati anche da Senegal e Costa d’Avorio”. Nigrizia del 2 gennaio 2025.
[8] «Intervention militaire française au Sahel: «On a oublié de nous dire merci», a déclaré Emmanuel Macron . » Mamadou Zongo, Le faso.net, 6 gennaio 2025.
[9] «Afrique de l’Ouest: Le Burkina Faso, le Mali et le Niger quittent la Cedeao sans délai (communiqué conjoint)». Le Faso.net, 28 gennaio 2024
[10] “La decisione di prorogare di sei mesi il ritiro di Burkina, Mali e Niger dall’ECOWAS costituisce un ulteriore tentativo che permetterà alla giunta francese e ai suoi ausiliari di pianificare e realizzare azioni destabilizzanti contro l’Aes ”, dal comunicato stampa Dichiarazione dei capi di Stato letto in televisione dal colonnello Amadou, collaboratore del Presidente dell’Aes Assimi Goita. La moratoria viene, infatti considerata come un “cavallo di Troia francese” per favorire future dinamiche di destabilizzazione dei paesi-Aes.
[11] Andrea Spinelli Barrile «Nel Sahel in guerra nulla è come prima”, il manifesto. 22 dicembre 2024
[12] “Bénin: réunion de crise de l’armée après l’attaque qui a couté la vie à 30 soldats dans le nord du pays». Jean Luc Aplogan. RFI, 14 gennaio 2024.
[13] 13 “Le Vice-Premier ministre russe, Alexandre Novak, échange avec le gouvernement». Soumaila Bonkoungou, Sidwaya. 2 dicembre 2024.
[14] «Summit Russia-Africa: cereali e sicurezza dominano la due giorni”. Nigrizia. 28 luglio 2023
[15] » Conférence Russie-Afrique: «Nous sommes convenus de travailler à ce que les décisions mondiales ne se résument plus à un groupe de cinq pays» (ministre K. Jean-Marie Traoré)». Oumar L Ouedraogo. Lefaso.net, 12 novembre 2024.
[16] «Fédération de Russie: Le Niger reconnaissant..., le Burkina exhorte également à valoriser le potentiel de coopération». P Oumar L Ouedraogo. Lefaso.net. 9 novembre 2024.
[17] Nella battaglia di Tinzawaten, nel nord del Mali, al confine con l’Algeria, nel luglio 2024, sono caduti 80 militari russi oltre ad una cinquantina dell’esercito regolare maliano, contro i terroristi jihadisti e ribelli tuareg.
[18] Durante il primo vertice Russia-Africa, a Sochi, nell’ottobre 2019.
[19] “Le mire russe sull’Africa”. Bobin-Quénelle-Le Monde. Internazionale, 13 settembre 2024.
[20] “Il Sahel tra Wayiyane e libere elezioni, mentre in Senegal si aprono nuove prospettive”. Sunzini-Santini – Alternative per il socialismo n.73. Luglio-Settembre 2024
[21] Nel convegno citato nella nota 1.
[22] “Piano Mattei per l’Africa: asso pigliatutto per quattro privati in agricoltura, energia e innovazione tecnologica”. Sandro Pintus. Africa ExPress, 30 gennaio 2025
[23] “Meloni svela i 5 nuovi Paesi del Piano Mattei”. Info-Cooperazione, 9 gennaio 2025
Fonte: “Alternative per il socialismo” numero 75 -marzo 2025