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L’isolamento di Rafah


Francesca Gnetti, giornalista di Internazionale

All’inizio della sua offensiva nella Striscia di Gaza dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, Israele aveva definito Rafah una zona sicura. Centinaia di migliaia di persone si erano riversate dal nord del territorio nella città al confine con l’Egitto, dove prima della guerra abitavano 280mila persone. Gli sfollati si erano accampati ovunque, nelle strade, nelle scuole, nelle auto: 1,4 milioni di palestinesi, metà dell’intera popolazione della Striscia, si erano ammassati in un’area di 63 chilometri quadrati. Nel corso dei mesi però si era fatta sempre più incombente la minaccia di un’incursione israeliana su Rafah, che il primo ministro Benjamin Netanyahu descriveva come l’ultimo bastione di Hamas nel territorio palestinese.

Poi, il 6 maggio 2024, l’esercito israeliano è passato all’azione, promettendo un’incursione “limitata” contro i combattenti di Hamas. Il giorno dopo i militari hanno preso il controllo del valico di frontiera tra Rafah e l’Egitto, interrompendo l’accesso all’aiuto umanitario nella Striscia. Decine di migliaia di persone sono state costrette a fuggire di nuovo. “All eyes on Rafah”, occhi puntati su Rafah, recitava un’immagine generata con l’intelligenza artificiale e condivisa 47 milioni di volte nel giro di pochi giorni dopo che l’esercito aveva bombardato un campo per sfollati in città alla fine di maggio, uccidendo almeno 45 persone.

Ma non è servito a niente. Il 70 per cento di tutte le strutture e le infrastrutture della città è stato raso al suolo nei mesi successivi. A giugno le Nazioni Unite hanno fatto sapere che circa un milione di persone aveva lasciato Rafah in cerca di salvezza altrove. Il 16 per cento dell’aera della città è stato sequestrato dall’esercito israeliano, che l’ha incorporato all’interno del corridoio Filadelfi, una zona cuscinetto lungo il confine con l’Egitto. Dopo l’inizio della tregua a gennaio molte persone sono tornate, trovando una città devastata. Alcune hanno deciso di vivere tra le rovine, altre in tende improvvisate, determinate a ricostruire e ridare vita alla città.

L’esercito israeliano non ha mai lasciato il corridoio Filadelfi e secondo le autorità locali almeno 40 palestinesi sono stati uccisi a Rafah durante la tregua. In quel periodo il sindaco Ahmad al Soufi aveva avvertito che la città era in condizioni disastrose e la presenza di cecchini e di ordigni inesplosi rendeva la situazione ancora più pericolosa. Secondo il Palestinian information center sono stati rasi al suolo il 90 per cento delle abitazioni, l’85 per cento del sistema fognario, dodici centri sanitari, otto scuole, cento moschee, 320 chilometri di strade e ventidue dei ventiquattro pozzi che rifornivano la popolazione di acqua potabile.

Oggi Rafah “non esiste più”, ha scritto su Instagram lo scrittore e studioso di Gaza Jehad Abusalim. Dal 18 marzo, il giorno in cui ha interrotto la tregua, Israele ha emesso 21 ordini di evacuazione, che riguardano praticamente l’intera superficie della città. Chi ha potuto è fuggito di nuovo. Altre decine di migliaia di persone sono intrappolate in porzioni di territorio sempre più piccole, da dove non possono uscire e non riescono ad avere nessun accesso agli aiuti umanitari. Tra il 18 marzo e il 9 aprile i bombardamenti israeliani hanno colpito 224 edifici residenziali e tende per sfollati, uccidendo soprattutto donne e bambini, denuncia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr).

Nelle ultime settimane Rafah è stata isolata dal resto del territorio e inglobata all’interno della zona cuscinetto che si estende lungo tutto il confine della Striscia di Gaza. Questo significa che Rafah e i suoi dintorni, che rappresentano un quinto dell’enclave, sono stati quasi del tutto svuotati dei loro abitanti e nessun palestinese ci potrà più mettere piede. L’area è delimitata a sud dal corridoio Filadelfi e a nord dal nuovo corridoio Morag, che i soldati stanno allargando fino a un chilometro. Come spiega l’articolo di Haaretz che pubblichiamo nell’ultimo numero di Internazionale, isolare quest’area significa “far diventare Gaza a tutti gli effetti un’enclave all’interno del territorio controllato da Israele, senza più collegamenti con il confine egiziano”.

Alcuni osservatori, per esempio il giornalista e analista di Gaza Muhammad Shehada, fanno riferimento al “piano delle cinque dita”, un progetto ideato nel 1971 dall’allora generale Ariel Sharon per divedere la Striscia in cinque porzioni e impedire la contiguità geografica tra il nord, il centro e il sud del territorio. L’esercito infatti sta creando una zona cuscinetto anche vicino al valico Kissufim, tra i corridoi Morag e Netzarim, come Haaretz avvertiva già lo scorso novembre.

Il giornalismo impossibile di Gaza

Durante la guerra del 2014 lavorare come giornalista nella Striscia di Gaza era già difficile, ma oggi i reporter sono considerati da Israele dei bersagli legittimi. Il racconto del giornalista Feurat Alani nel video di Arte.

I dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari rilevano che l’accesso ai palestinesi è ormai vietato nel 66 per cento della Striscia di Gaza. L’Orient-Le Jour commenta che anche se Tel Aviv giustifica le sue manovre con l’obiettivo di aumentare la pressione militare su Hamas per costringerlo a riconsegnare gli ostaggi e capitolare, ci sono tutte le ragioni per credere che Israele stia gettando le basi per un’occupazione militare a lungo termine della Striscia di Gaza.

Robert Geist Pinfold, che si occupa di sicurezza al King’s college di Londra, fa notare al quotidiano libanese che “da quando Trump è diventato presidente, Israele cerca di rendere Gaza meno vivibile, allo scopo di costringere un grande numero di abitanti a emigrare”. In questa strategia rientra il via libera dato dal gabinetto per la sicurezza a fine marzo per la creazione di un “Ufficio per l’emigrazione volontaria degli abitanti di Gaza interessati al trasferimento in paesi terzi” all’interno del ministero della difesa. Il ministro Israel Katz ha chiarito che l’agenzia “opererà in coordinamento con organizzazioni internazionali e altri organi di governo in base alle istruzioni dell’esecutivo”.

Secondo Bloomberg, le autorità politiche e militari israeliane hanno intenzione di attuare un piano, ideato dal nuovo capo delle forze armate Eyal Zamir e approvato da Katz, che porterà a un’occupazione militare totale della Striscia e all’eliminazione di Hamas. L’Orient-Le Jour aggiunge che il governo israeliano prevede di controllare la sicurezza del territorio affidando gli affari civili a tecnocrati palestinesi non legati a entità politiche e con un sostegno arabo esterno.

Il modello sarebbe quindi quello già attuato in Cisgiordania, conferma Robert Geist Pinfold: “Proprio come in Cisgiordania, Israele vuole evitare di essere responsabile delle aree urbane dove vive la maggior parte degli abitanti e non vuole pagare i servizi sociali e sorvegliare le città. Vuole controllarle il più possibile a distanza. Questa è la logica dello status quo a lungo termine in Cisgiordania, che Israele chiama ‘occupazione invisibile’”. In un articolo su Haaretz Dahlia Scheindlin conferma che Israele sta portando a Gaza “un’annessione in stile Cisgiordania”: “La guerra nella Striscia è passata in modo lento ma inesorabile dagli obiettivi puramente militari a una missione fondamentalmente politica. Come in Cisgiordania, questa missione è il controllo permanente”.

Le conseguenze di questa politica sono evidenti. Decine di migliaia di abitanti palestinesi della Cisgiordania sono rimasti senza casa in seguito all’offensiva militare lanciata negli ultimi mesi dall’esercito israeliano in varie zone del territorio. Come dimostra un’infografica di Al Jazeera, Israele “sta rapidamente ridisegnando la mappa della Cisgiordania occupata”. Con la violenza dei coloni fuori controllo e l’appropriazione illegale delle terre in aumento è sempre più evidente che l’obiettivo finale di Israele è l’annessione totale.

Ed è difficile prevedere quali saranno le ripercussioni a lungo termine di questa strategia. Uno studio pubblicato dall’Israeli institute for national security studies avverte che un’annessione unilaterale tradisce l’ideologia sionista e aumenterà l’isolamento globale d’Israele. Per i palestinesi questo significa altre espropriazioni, violenze e atrocità.

Fonte: Internazionale 17.4.2025

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale, che tornerà tra due settimane.